Oggi marito e padre di due figli, guida la USTA con l’obiettivo di rendere il tennis uno sport per tutti. La sua storia dal buio delle terapie di conversione alla luce dello US Open Pride
Da promessa del tennis a voce autorevole per l’inclusione nello sport. Brian Vahaly, 46 anni, ex professionista ed ex numero 64 del ranking ATP, oggi è presidente del consiglio direttivo della U.S. Tennis Association (USTA), l’organismo che governa il tennis negli Stati Uniti. E lo fa portando con sé una storia personale complessa: anni di lotta interiore, la dolorosa esperienza delle terapie di conversione, un coming out tardivo ma coraggioso, e infine la costruzione di una famiglia con il marito Bill Jones e i loro due gemelli, Parker e Bennett.

Proprio ieri, a New York, Vahaly ha organizzato lo US Open Pride, con un brunch e una festa serale all’Arthur Ashe Stadium. Un evento che rappresenta la sua visione: fare del tennis “lo sport più inclusivo possibile”, capace di accogliere ogni comunità senza discriminazioni.
Dal campo alla presidenza
Ritiratosi nel 2007 a soli 27 anni, dopo cinque titoli Challenger, Vahaly ha continuato a servire il tennis dall’altra parte della rete. Entrato come volontario nell’USTA da ragazzo, ha scalato i ranghi fino alla presidenza del board. Oggi, sotto la sua guida, l’associazione investe in campi pubblici e sostiene progetti sociali come The Trevor Project, con un’attenzione particolare alla salute mentale.
Il dramma nascosto: conversion therapy e silenzi
Nel ricordare i suoi anni da atleta, Vahaly non nasconde le difficoltà: “Non ho fatto i conti con la mia sessualità fino ai 25 anni. Sono cresciuto in un contesto religioso conservatore e ho creduto che la mia omosessualità fosse un difetto da correggere”. Per un periodo ha persino frequentato incontri di terapia di conversione, convinto che solo un matrimonio eterosessuale potesse portarlo alla felicità.
“Ho sprecato anni cercando di negare chi ero – racconta –. Ora parlo della mia esperienza per evitare che altri atleti ripetano i miei stessi errori”.

Paure nello sport maschile
A differenza del tennis femminile, con figure storiche come Billie Jean King o Martina Navratilova, il circuito maschile resta ancora povero di coming out. Lo conferma Vahaly: “Negli anni 2000 l’omofobia era parte del linguaggio degli spogliatoi. Il rischio di perdere sponsor o di non poter giocare in Paesi dove l’omosessualità è criminalizzata mi sembrava troppo alto. Non ero pronto a essere ‘il giocatore gay’”.
Solo dopo il ritiro ha trovato il coraggio di esporsi: “Ho voluto mostrare la vita che il mio io più giovane non aveva mai visto: una vita fatta di amore, figli e sport”.
La nomina di Brian Vahaly alla guida del tennis USA rappresenta un cambio di paradigma. In un contesto in cui il coming out maschile resta un tabù, la sua presenza al vertice dell’USTA ha un valore politico e culturale enorme. La sua scelta di raccontare senza filtri l’esperienza traumatica delle terapie di conversione, unite alla visibilità della sua famiglia, lo rendono un modello di resilienza e autenticità.
L’US Open Pride ne è la dimostrazione: un grande Slam che si apre non solo al talento, ma anche ai diritti. Un segnale che lo sport può e deve essere spazio di accoglienza e uguaglianza.