In un ambiente lavorativo ancora segnato da pregiudizi, il 58% delle persone LGBTQIA+ nasconde la propria identità. Paura, discriminazioni e molestie frenano la visibilità e compromettono il benessere psicologico.
Essere sé stessi, per molti, è un gesto quotidiano. Per altri, un lusso. Sul posto di lavoro, il coming out resta ancora oggi una decisione difficile, spesso vissuta con ansia, timore e conseguenze tangibili. Un recente studio del Williams Institute dell’Università della California (UCLA) ha portato alla luce una realtà scomoda: quasi un lavoratore LGBTQIA+ su tre teme di dichiarare apertamente la propria identità. Ma il dato che più colpisce è che il 58% adotta strategie quotidiane per nascondersi.

Dietro questi numeri si cela un disagio profondo. Il coming out, infatti, non è solo un atto personale, ma diventa un banco di prova per la cultura aziendale e la maturità sociale di un’organizzazione. Il 46% degli intervistati ammette di non sentirsi sicuro nel parlare della propria sessualità con manager e superiori. Il timore del giudizio, delle ripercussioni sulla carriera o persino del licenziamento, pesa come una minaccia silenziosa.

A sorprendere è il confronto tra chi decide di fare coming out e chi invece sceglie il silenzio: il 39% di chi ha rivelato la propria identità ha subito discriminazioni sul lavoro, mentre tra chi ha preferito non esporsi, questa percentuale scende al 12%. Ma il dato più allarmante riguarda le molestie: ne è vittima il 42% di chi si è apertamente dichiarato, contro il 17% tra chi ha mantenuto il riserbo.
Numeri che parlano da soli, e che indicano chiaramente una cultura aziendale ancora poco accogliente, dove la trasparenza può diventare un boomerang. In molti casi, l’ambiente lavorativo viene vissuto come un teatro in cui recitare una parte: si evitano foto personali sulla scrivania, si usano pronomi neutri, si tace sulle relazioni affettive. Una dissimulazione costante che, a lungo termine, genera stress, alienazione e scarso coinvolgimento emotivo nel proprio ruolo.

Eppure, i vantaggi di un ambiente inclusivo sono ampiamente documentati: maggiore produttività, minore turnover e un miglior clima aziendale. Le imprese che favoriscono politiche di diversity e inclusion non solo tutelano i diritti fondamentali, ma si rafforzano anche in termini di reputazione e innovazione.
Il messaggio che emerge dallo studio della UCLA è chiaro: non è sufficiente scrivere “inclusività” in un codice etico. Serve un impegno autentico, quotidiano, fatto di formazione, ascolto, tolleranza zero verso ogni forma di discriminazione. Perché solo quando ogni persona potrà essere sé stessa anche in ufficio, si potrà davvero parlare di progresso.